Suicidi in carcere, le morti silenziose che sono in aumento costante

Sono esseri umani. E la vita di ogni persona è sacra: lo è quella dei detenuti che abitano le carceri italiane. Soggetti da riabilitare. Uomini e donne che, il più delle volte, non trovano nella casa circondariale il luogo della espiazione e rieducazione ma un vero proprio inferno, capace di tradursi in una trappola mortale. Si pensi che i suicidi in carcere sono già 30 nel 2024. Si va verso un nuovo record, dopo quello registrato due anni fa, con 85 decessi accertati – nel 2023 erano 71. Pertanto la media attuale è di un suicidio ogni tre giorni e mezzo.

Suicidi in carcere e sovraffollamento

L’altro dato allarmante riguarda il tasso di affollamento. Lo dicono i numeri riferiti a quest’anno: al 31 marzo le persone detenute erano 61.049, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. “Le cause di questa crescita sono diverse: maggiore lunghezza delle pene comminate, minore predisposizione dei magistrati di sorveglianza a concedere misure alternative alla detenzione o liberazione anticipata, introduzione di nuove norme penali e pratiche di Polizia che portano a un aumento degli ingressi”, riporta il dossier Nodo al collo pubblicato da Antigone. I tassi di affollamento più alti a livello regionale si continuano a registrare in Puglia (152,1%), in Lombardia (143,9%) e in Veneto (134,4%). Solo il Covid ha frenato la crescita nel recente passato. Dalla fine del 2019 alla fine del 2020, a cause delle misure deflattive adottate durante la pandemia, le presenze in carcere erano infatti calate di 7.405 unità, precisa lo stesso XX rapporto dell’associazione italiana che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario.

Le vittime

L’età media di chi si è tolto la vita è di 40 anni. La fascia più rappresentata, infatti, è quella compresa tra 30 e 39 anni. Muoiono gli stranieri più degli italiani. Considerando che la loro presenza in carcere è leggermente inferiore a un terzo della popolazione detenuta totale (31,3%). Oltre alle persone giovani o giovanissime, a quelle di origini straniera, sono numerose le situazioni di presunte o accertate patologie psichiatriche, riconducibili ai suicidi in carcere. Il che certamente non può essere considerata la normalità. Per alcuna ragione, infatti, la sofferenza di un individuo dovrebbe essere portata alla disperazione totale. Tra le vittime in carcere ci sono persone passate dal tunnel della tossicodipendenza. O quelle che erano senza fissa dimora.

Cosa si può fare per arrestare il trend di crescita allarmante? Secondo gli esperti di Antigone occorre favorire percorsi alternativi al carcere, e migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti, al fine di ridurre il più possibile il senso di isolamento e di marginalizzazione, che stanno alla base dei suicidi in carcere. Concretamente si potrebbe incentivare una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno. Le telefonate andrebbero liberalizzate: “Poter parlare con una persona cara può far tanto, per chi si trova in una situazione di profondo dolore potrebbe anche salvare la vita”. Occorrerebbe poi ripensare il sistema carcere. Che già da tempo, ormai, non è più il luogo dove marcire per aver commesso uno o più reati.